Generazione: progetto o avvenimento?
La persona nella cultura contemporanea
Prof. Marco Cangiotti
1. La realtà della persona umana è molto ricca e complessa e una prima conseguenza di questo fatto risiede nella difficoltà di individuare il giusto punto d’osservazione per cercare di coglierla. A questa difficoltà di metodo si può cercare di dare risposta partendo dalla constatazione che la persona è certamente ed essenzialmente costituita dall’intreccio di due facoltà, l’intelligenza e la volontà. Ancora una volta, però, dire intelligenza e volontà significa dire qualcosa di assai vasto; tuttavia, pur dentro questa vastità, l’osservatore attento non può non rilevare che uno dei cospicui risultati del loro fecondo corrispondersi è rappresentato dal potere della azione: la persona umana, dunque, proprio perché caratterizzata dalla ragione e dalla libertà, è dotata della capacità di agire.
Agire è, chiaramente, una dimensione per così dire “verbale” anzi, in alcune prospettive metafisiche, essa rappresenta il punto fontale dello stesso darsi di ciò che consideriamo la dimensione verbale (essere come actus essendi). Orbene, non c’è verbo senza sostantivo e non c’è azione senza attore, per cui quando ci si imbatte in una azione essa inevitabilmente ci rimanda al suo attore, al soggetto che la pone o, come dice San Tommaso con mirabile sintesi, operari sequitur esse: ogni azione proviene e dipende dal soggetto che la pone. Con ciò, la realtà dell’azione diventa un momento di eloquente rivelazione, di forte manifestazione del suo soggetto. Detto in altri termini, la realtà della persona in azione può costituire un adeguato punto di osservazione per cercare di cogliere qualcosa della persona stessa, ed è esattamente ad esso che cercherò di attenermi nello sviluppo delle mie considerazioni. A rafforzare questa scelta sta poi il fatto che, a quanto detto sul valore e sulla funzione rivelativa dell’azione, occorre aggiungere la considerazione che I’azione umana possiede anche un potere formativo nei confronti dello stesso soggetto che la pone. A noi tutti è chiaro che ogni atto produce un risultato nel mondo esterno, e possiamo definire ciò come l’effetto transitivo dell’azione; ma, in virtù del fatto che l’azione proviene e dipende dalla persona – operari sequitur esse – è inevitabile che essa, in qualche modo, implichi il suo stesso soggetto anche al livello dei suoi risultati, ossia che retroagisca sul suo attore, ponendo così in essere anche un effetto intransitivo. Ciò che compio con ragione e libertà cambia il mondo esterno, ma proprio perché dipende totalmente da me, oltre a manifestarmi per quello che sono, mi rende quello che sono: agendo la persona realizza se stessa secondo la misura e il contenuto della sua azione. E’ esattamente questo il senso della affermazione etica che attraverso la sua libertà l’uomo si autodetermina moralmente.
Un secondo punto di imbarazzo, una volta che si sia risolto il primo nel modo sopra descritto, è rappresentato dalla necessità di scegliere a quale dimensione dell’agire della persona fare riferimento. Dobbiamo occuparci della sfera dell’azione in generale oppure dobbiamo scegliere, fra le innumerevoli classi di azioni possibili alla persona umana, un tipo di azione specifica?
Per rispondere a questo interrogativo, da cui dipende tutto il discorso, occorre rifarsi ad un criterio di scelta. Nel nostro caso il criterio è già a disposizione, ed è rappresentato dal titolo stesso del nostro tema: La persona nella cultura contemporanea. Con ciò si è stabilito che il discorso deve curvarsi sulla storia presente e non su questioni di carattere meta-storico e per così dire intemporali. Tuttavia, anche dentro il ben circoscritto spazio rappresentato dalla cultura e dalla storia contemporanea, le questioni che si agitano e le dimensioni possibili dell’agire della persona sono per lo meno molteplici.
La mia decisione è quella di occuparmi di quel particolare tipo di azione rappresentato dalla generazione o, più precisamente, di quella particolare dimensione rappresentata dall’esperienza dell’atto della generazione così come oggi è dato sperimentarlo agli uomini.
La scelta che ho deciso di operare, allora, è in qualche modo certamente arbitraria ma, al tempo stesso, mi pare anche suggerita dalla eloquenza dei fatti e dalla urgenza che essi pongono in essere rispetto al destino stesso della persona umana. Infatti, non sfugge a nessuno che una delle questioni più brucianti del nostro contesto culturale e anche politico è rappresentata dal progresso scientifico-tecnologico nel settore della biologia.
Un punto particolare di questo generale progresso ha investito il potere generativo della persona che così si presenta del tutto sottraibile alle cosiddette leggi naturali e gestibile in maniera totalmente artificiale.
Finora all’uomo era consentito un unico tipo di azione generativa, e questa forma di generazione implicava una stretta connessione con qualcosa d’altro che si sottraeva al controllo dell’uomo. Il concetto che meglio esprime questo tipo di esperienza generativa è quello di “avvenimento”. Oggi l’uomo può scegliere fra azioni diverse e le nuove e sopravvenute possibilità si basano sulla estensione del potere umano di controllo sulla realtà, tanto da potere escludere il ruolo di ogni alterità: tutto dipende dall’uomo e sta saldamente nelle sue mani. Propongo di racchiudere questa nuova dimensione dell’esperienza generativa nel concetto di “progetto”. Il problema che nasce da questa nuova situazione è ben sintetizzato dalla considerazione che le nuove possibilità d’azione, mentre per un verso estendono il suo potere di controllo sulla realtà e vengono propagandate come altamente benefiche e meritorie in quanto in grado di correggere I’ arbitrio che la natura da sempre aveva esercitato, per un altro verso appaiono inquietanti e foriere di un irrimediabile processo di macchinizzazione della stessa natura umana. Novello Prometeo, l’uomo contemporaneo sta donando “il fuoco” all’umanità o sta invece e in realtà commettendo il più imperdonabile e distruttivo peccato di orgoglio da cui, per il potere intransitivo della sua azione, sarà egli stesso trasformato in un essere mostruoso?
2. Dovrebbe a questo punto essere ben chiaro che nella riflessione sul tema della generazione umana, cioè della paternità e maternità, non intendiamo avere a che fare con fatti, con cose, ma con la persona umana e con l’esperienza dell’essere uomini. La domanda che allora si impone e che dobbiamo farci è questa: che tipo di uomo è, e quale esperienza umana è quella di colui che vive la generazione come avvenimento? E ancora: che tipo di uomo è, e quale esperienza umana è quella di colui che invece la vive come progetto?
Le affermazioni che si fanno vanno dimostrate, e pertanto io debbo cercare di spiegare per quale motivo ritengo che qui si giochi molto del destino della persona umana e della sua identità nel tempo presente. La spiegazione fondamentale risiede nel fatto che quando si pensa alla realtà della generazione ci si accosta con ciò stesso a una delle due essenziali dimensioni della esistenza umana, quella dell’inizio della vita – mentre l’altra è quella della sua fine, della morte -, da cui noi radicalmente dipendiamo e che non ci appartengono. lo non mi sono dato la vita, eppure ci sono – e, ricordiamolo, io non riuscirò ad evitare la mia morte che, nonostante me, un giorno accadrà -. Per questa loro radicalità, ossia per il fatto che in entrambe ne va di me, ne va di ciascuno di noi, non possiamo accostarci ad esse, e segnatamente nel caso presente alla prima di esse, cercando qualche regola di comportamento, o trattandola come un oggetto esterno, magari come un problema politico, o sociale o economico.
Ciò posto il compito che ci attende è quello di cercare di mettere a fuoco quale sia il bene umano o, detto in altri termini, quale sia il volto che riceverò, che emergerà, e quindi quale tipo di uomo mostrerò di essere, quale tipo di uomo sarò, se agirò collocandomi nella sfera dell’avvenimento o se, invece, agirò collocandomi dentro la sfera del progetto. Si può essere padre e madre in due diversi modi, e quello che dobbiamo capire sono le conseguenze che ciascuno dei due produce per il nostro io, per la nostra stessa e profonda identità. Siamo, lo ricordo ancora, dentro il caso tipico dell’azione che svela – e pone – l’io.
Facciamo il primo passo e cerchiamo, per l’appunto, di accostarci al tipo d’uomo e all’esperienza dell’umano che si collocano nello schema del progetto. Dobbiamo subito dire che
il termine stesso, “progetto”, appartiene nella sua radice più intima alla dimensione febbrile dell’esistenza; ha infatti strettamente a che fare con la fabbricazione di cose: l’artigiano che costruisce la sedia prima di passare all’azione realizzatrice deve determinarne in via preventiva la forma, cioè deve tracciare una immagine astratta sia dell’oggetto che vuole fabbricare sia delle procedure che dovrà attuare per realizzarlo materialmente. Il fatto di dovere in via preventiva predisporre un progetto rivela che la cosa che si vuole ottenere, a cui si vuole “dare vita”, in realtà non esiste ancora, è del tutto assente; pertanto rivela anche che è la mia mente a crearla, che sono io che la invento e quindi che essa, senza di me, non sarebbe nulla. L’oggetto progettato è dunque totalmente mio.
Ciò che esiste al di fuori del progetto sembra essere, invece, il materiale, la materia che adoprerò per realizzare concretamente la mia idea. Ho volutamente detto “sembra”, e su ciò dobbiamo porre attenzione perché nella realtà non esiste mai un materiale totalmente inerte, una specie di creta che non è dotata di alcuna forma propria e che, in modo totalmente passivo, aspetta solamente che arrivi il fabbricatore per potere finalmente ricevere da quest’ultimo la forma che lui vorrà dargli. In realtà ogni cosa, anche la più umile, ha già una sua forma, una sia pur flebile e tenue identità, e allora per poterla trasformare nella cosa che io ho progettato devo, prima di ogni altro passo, toglierle violentemente la sua originale forma e identità: il legno con cui il falegname fabbricherà la sedia è in origine e per se stesso una pianta, che quindi va abbattuta, scortecciata, tagliata, piallata e via dicendo. Il progetto implica dunque non solo che io sono il padrone e il creatore della cosa progettata, ma anche che io sono il dominatore di ciò che già c’è, tanto dominatore da poterlo legittimamente e con pieno successo costringere a fornirmi il materiale per realizzare il mio progetto. Progetto, possesso e violazione vanno necessariamente assieme.
Nella sfera del progetto c’è posto solamente per un unico soggetto, per un’unica libertà, e tutto il resto è inerte oggetto, pura passività su cui esercitare il magico potere di ideare e di realizzare. In conclusione, l’immagine che il fabbricatore riceve e che manifesta di se stesso è quella del signore che domina una realtà a lui totalmente sottoposta.
È ovvio che tutto ciò va senz’altro bene quando si tratti di costruire sedie, o case, o città, o automobili, cioè quando l’uomo si trovi in relazione con cose e, anche se qui il caso si complica non poco, con animali. Se però passiamo ad applicare questa logica in quella dimensione dell’esistenza rappresentata dalla paternità e maternità le cose mutano profondamente. L’atto generativo pensato dentro la sfera del progetto implica, prima di tutto, una certa relazione nella coppia genitoriale, relazione che poi investe di se anche il rapporto con il figlio concepito.
Per entrambe le figure genitoriali il partner non può che apparire alla stregua di uno strumento per realizzare l’idea che si è concepita, e come ogni strumento diventa un “esso” un quid e cessa di essere un “egli”, un quis. Crolla cosi la possibilità di un rapporto di comune genitorialità: uno solo genera e I’altro semplicemente collabora come strumento che, terminata la sua funzione, deve recedere. La manifestazione a livello di evidenza fenomenologica di questo stato delle cose sta, per esempio e a livello psicologico, nell’eclissi della figura paterna (ma domani potrebbe benissimo diventare l’eclissi di quella materna) che oggi si registra; sta, ancora per esempio e a livello di costume, nella furibonda controversia e contesa per l’affidamento dei figli che spesso si apre nei casi di separazione e divorzio.
Se poi guardiamo alla relazione con il figlio essa si manifesta come una relazione con un proprio prodotto: il dire “mio” figlio ha un contenuto di coscienza per il quale la parola “mio” cessa di esprimere il coinvolgimento totale che io ho e voglio avere col suo destino e passa invece ad indicare una relazione propriamente di possesso, identica o fortemente simile a quella che ho con le cose in mia proprietà. Nel primo caso, quando il padre o la madre dice al figlio “sei mio”, intende con ciò dire: “Sono tuo, mi offro a te e al tuo destino di bene e di felicità”; nel secondo caso intende dire: “Ti possiedo, perché l’inerte nulla che tu eri ha ricevuto da me la sua forma vivificante”. Il riscontro sociologico di questo secondo atteggiamento sta per esempio nella tendenza, drammaticamente ali’ ordine del giorno, a selezionare, tramite le pratiche della manipolazione genetica, il sesso del nascituro o, persino, il colore degli occhi; per non dire poi della tendenza, ancor più grave ma ancor più espressiva, ad operare, sempre con I’ausilio della tecnica genetica, per evitare ogni possibile malformazione o patologia congenita: il prodotto del mio agire deve corrispondere perfettamente all’ideale di bellezza e di perfezione del mio progetto, redatto con tanta cura, e pertanto, se per caso dovesse riuscir male, non è poi così scandaloso pensare di correggerlo o, se ciò risultasse impossibile, di scartarlo. Non fa così anche l’artigiano scrupoloso?
Il nome di padre o madre diventa perciò sinonimo di padrone e signore. La logica del prodotto non dà scampo e produce necessariamente questo tipo di uomo e questa triste esperienza della paternità e maternità.
La domanda per noi è, allora, se davvero vogliamo essere così; se è questo l’ideale umano che mi auguro e che desidero per me stesso. Qui, a livello di questa domanda, e non nelle regole, sta la scaturigine stessa della posizione morale di ciascuno di noi.
3. A questo ordine della coscienza si offre un’alternativa, ed è quella rappresentata dalla sfera dell’avvenimento e del tipo d’uomo e d’esperienza che essa pone e manifesta. Ad essa dobbiamo dedicare il nostro secondo passo. Cerchiamo innanzitutto di capire cosa propriamente significhi “avvenimento”, perché si tratta di una realtà complessa dietro la sua apparente semplicità. Avvenimento è qualcosa di nuovo che accade in maniera autonoma rispetto a me, eppure io non sono escluso, anzi, ciò che accade, anche se non io ne sono l’autore, convoca e mette in movimento la mia libertà, mi rende supremamente attivo, lo non I ‘ho prodotto, ma nemmeno lo subisco, L’avvenimento, con la sua novità, è qualcosa che mi implica, mi chiama, mi interpella, per cui succede che alla fine del suo porsi ed accadere il mio io, che pure – lo ripeto – non l’ha prodotto ne lo possiede, risulta essere indispensabilmente presente. L’avvenimento dunque è qualcosa di nuovo e di oggettivo che si pone, e che ponendosi provoca anche il libero porsi del mio io. Come tale, l’avvenimento è una suprema forma di relazione e di novità,
Se vogliamo essere ancor più concreti possiamo osservare che nella normale esperienza umana l’avvenimento principale, quello che racchiude in se e rende possibili tutti gli altri, è senz’altro l’avvenimento della nascita, dell’iniziare a vivere: altri hanno posto la mia nascita, non io, ma da questa novità oggettiva che si pone io sono chiamato ad essere un io che è dotato di un ‘unica e irripetibile identità e che è pienamente libero, ossia col pieno potere di agire e di fare di me stesso ciò che deciderò di essere. Non per niente il cristianesimo, la cui natura più intima e quella di essere un avvenimento, ossia la novità di un inizio che si pone oggettivamente, ha consegnato questo suo carattere di inizio nuovo nella forma sacramentale del battesimo: come si diventa cristiani ? Col battesimo; e cosa è il battesimo se non l’atto di una nascita una nuova nascita “dall’acqua e dallo Spirito”.
Collocare la generazione nella sfera dell’avvenimento significa viverla come l’accadere di una novità che, ponendosi, ci convoca. Certamente è banale osservare che la generazione sfocerà nella nascita del figlio, mentre può suonare paradossale dire che, se la generazione è vissuta nella logica dell’avvenimento, ancor prima che produrre la nascita del figlio essa stessa si mostra essere una nascita, la nascita dei genitori, la nascita del padre e della madre. Esploriamo questo “paradosso”.
Quando avviene il fatto del concepimento, la donna e l’uomo che hanno generato questa nuova vita si trovano di fronte a un problema che implica una svolta radicale nella loro esistenza e individuale e di coppia. Il problema è quello della accettazione del nuovo essere a cui la loro intimità feconda ha dato origine. Non si tratta di un processo automatico, anche se nelle persone dotate di normale equilibrio avviene il più delle volte in maniera inconsapevole. Il terzo che irrompe, infatti, non può essere ridotto a un prolungamento dei primi due, il suo carattere originale è subito messo in chiaro dalle “pretese” concrete di cui immediatamente si fa portatore. Sin dalla vita fetale il bambino segna con la sua “ingombrante” presenza i genitori nella loro individualità e nella loro unione. Per esempio, la madre vive il radicale cambiamento fisico-ormonale che la gravidanza le impone e che si manifesta in una miriade di sintomi. Ancora, padre e madre devono in qualche modo ripensare la loro vita sessuale e gestirla in una maniera comunque diversa. E così è per la loro vita economica, per la loro gestione del tempo, e per tanto altro ancora. Tutto questo lo ricordiamo per dire che l’altro c’è realmente e realmente deve essere accettato, gli va fatto un concretissimo spazio, tanto fisico quanto psicologico quanto affettivo.
Il significato spirituale di questa situazione reale è riassunto nel fatto che, per accettare il figlio, i genitori debbono accettare che il significato della propria persona e della loro unione risieda nella loro capacità di offrirsi gratuitamente a un terzo uomo. Detto in altri e più espliciti termini, l’uomo e la donna debbono scoprire il senso di una relazione onerosa e non contraccambiata – almeno per il momento – con l’altro che si motiva solo per il carattere di umanità di quest’ultimo. Dunque, l’uomo e la donna, che hanno generato il figlio, sono condotti dalla loro stessa genitorialità a scoprire e a vivere una sorta di nuova identità, per la quale l’umanità dell’altro uomo diventa un termine su cui misurare la propria umanità, e per la quale dire “sei mio” al figlio significa dire l’implicazione totale del proprio destino col suo, esattamente come quando, nella preghiera dell’uomo correttamente religioso, viene detto “mio Dio”. Questo nuova dimensione della coscienza sarà però possibile solo nella misura in cui essi siano persuasi di alcune cose fondamentali.
Prima di tutto, essi devono credere che colui che sta loro di fronte, con tutta la sua enorme pretesa, abbia titolo ad avanzarla, e la pretesa è di tal genere che l’unico titolo adeguato sta nel riconoscimento che costui è qualcuno e non qualcosa, ossia non è l’incarnazione del mio progetto (anche benevolo) ma è un altro “io” del tutto simile al mio stesso “io”, e dunque identicamente dotato di quella radicale dignità e libertà che non faccio fatica a riconoscere a me stesso. Poi, essi debbono anche essere convinti che il senso della proprio circoscritta individualità risieda in una rottura di questa stessa individualità, quella rottura che in qualche modo hanno già sperimentato nella loro relazione di coppia, e che ora, orientata verso il figlio, riceve la sua definitiva sanzione.
Detto in termini filosofici, debbono interpretare se stessi come comunità, ma, si badi bene, non semplicemente la loro unione di coppia, bensì la loro stessa costituzione individuale.
Questo significa esattamente che la nascita spirituale a cui l’essere genitore conduce è quella che permette all’uomo di comprendere che la sua più vera identità risiede nell’essere, allo stesso tempo, una piena e libera individualità e una altrettanto piena comunionalità, cioè di essere una persona.
Questo è l’altro modo di essere uomo che si pone di fronte a noi, e anche qui dobbiamo chiederci: voglio io essere così? È questo il bene umano che mi auguro e che desidero ? Sapendo bene, per altro, che dal mio sì al progetto oppure all’avvenimento dipenderà, e non sembri strano, non solo il mio individuale destino, ma anche quello della intera civiltà umana a cui appartengo, che potrà pertanto essere o una civiltà della piena macchinizzazione disumanizzante, oppure una civiltà fondata sulla capacità di vivere l’avventura rischiosa della novità come dono che si pone e che, ponendosi, rende l’uomo più umano.